Mario Cossu

Le Maschere dei Boes e Merdules

Su Carrasecare – Immagini del Carnevale in Barbagia

La Barbagia fu spesso definita “un’isola nell’isola”, definizione che ancora oggi appare abbastanza pertinente se si considera che le tradizioni più arcaiche, come ad esempio le maschere carnevalesche, sopravvivono principalmente nei paesi dell’interno.

Il viaggiatore che durante il carnevale giunge in Sardegna s’imbatte in uomini vestiti di pelli, carichi di campanacci, col volto annerito o coperto da maschere lignee (carottas o caratzas) che sembrano venire direttamente dalla preistoria. E preistorico è anche il rito che eseguono: un rito agrario di fertilità, che si basa sul concetto di morte e rinascita annuale della vegetazione. Nonostante le varianti che si riscontrano tra un paese e l’altro, questo carnevale appare ovunque cupo, triste e colpisce profondamente il visitatore che lo vede per la prima volta. Mima la cattura e la morte di Dioniso, dio della vegetazione, attraverso la cattura e la morte di una vittima sostitutiva, ripetendo gesti e movenze di cui la maggior parte dei protagonisti non ha più chiara coscienza.

Le maschere sarde più conosciute sono quelle di Mamoiada, dette Mamuthones. Avanzano per le vie del paese eseguendo una danza zoppicante, a saltelli, ritmata dal suono cupo dei campanacci che portano sulle spalle, agitandoli con colpi di spalla, ora a destra, ora a sinistra. Nella tragica danza sono circondati da guardiani con in mano un laccio. Per le vie di Ottana, paese poco distante da Mamoiada, si incontrano i Boes, uomini così chiamati perché portano sul volto una maschera bovina, probabile manifestazione di Dioniso che, secondo il mito, venne catturato dai titani quando assunse la forma di un vitello. Anche questa maschera è seguita da guardiani. In tempi non molto lontani era facile vedere rappresentazioni simili, durante il carnevale, in quasi tutti i paesi della Sardegna centrale, perché qui si conservano antiche e suggestive tradizioni il cui significato non è più facilmente comprensibile se non si comparano i carnevali dei vari paesi, nella mimica che ripetono anno dopo anno e nei nomi che ancora sopravvivono. Tanti dominatori si sono succeduti e ognuno ha lasciato la sua impronta, ma nessuno è riuscito a cancellare completamente le tracce di rituali che affondano le radici nelle antiche religioni misteriche delle culture mediterranee.

Il carnevale tradizionale sardo ancora esibisce una vittima sacrificale, che in alcuni paesi si presenta zoomorfa, in altri antropomorfa. Esaminando l’etimologia del nome Maimones, col quale ad Orgosolo, Sarule, Olzai, Oniferi e in altri paesi vicini, le maschere sarde vengono comunemente indicate, ci si rende conto che è lo stesso nome col quale in Sardegna veniva invocato il dio della pioggia, Maimone, ed esaminando il rituale agrario che le maschere mimano, se ne deduce che la divinità commemorata era Dioniso Mainoles, dio dell’ebbrezza e dell’estasi, ma anche della vegetazione che nasceva e moriva con lui nel ciclo annuale della natura. Tutti i carnevali sardi rappresentano lo stesso rito. Ciò che li differenzia sono i momenti diversi di una stessa rappresentazione legata all’anno agrario. Il carnevale in Sardegna è detto carrasegare o carrasecare. Già la parola rinvia al significato autentico che questa manifestazione aveva un tempo nell’isola, ben diversa dai carnevali trasgressivi ricordati dai Saturnalia. Carrasegare (carré de segare) significa carne viva da lacerare, da fare a pezzi. L’aspetto tragico della maschera del Mamuthone ancora rievoca, seppure inconsciamente, sia nel nome che nelle esibizioni, le antiche feste dionisiache, dove capretti e torelli venivano sbranati vivi per commemorare la passione e la morte di Dioniso sbranato dai titani.

Nel carnevale di Ottana l’uomo mascherato da Boe interpreta anch’esso, sebbene non ne abbia più coscienza, il ruolo della vittima da sacrificare. È legato alla vita con una corda tenuta da guardiani detti Merdules che lo pungolano lungo il percorso. Appare carico di campanacci con funzione apotropaica, come le altre vittime del carnevale sardo. Il Boe dovrebbe rappresentare Dioniso sotto forma bovina, ovvero il dio che si fa vittima e muore perché le piogge scendano abbondanti sulla terra. Ogni tanto, durante il percorso, il Boe cade a terra e simula la passione. I Merdules, suoi guardiani, che lo tengono legato, essendo esseri umani, portano una maschera lignea priva di corna. Altra figura importante del carnevale di Ottana è Sa Filonzana, un tempo presente anche in altri paesi col nome di Filadora o di Cràtula. Quest’ultimo nome è una corruzione di Cratèide, la forte, colei alla quale non si può resistere, cioè la Morte. È sempre vestila di nero, munita di fuso e conocchia e porta una maschera facciale lignea. Rappresenta una vecchia piegata ad angolo retto per la sua grande età. Tutti ne hanno paura e cercano di evitarla. Quando i gruppi mascherati si fermano presso le case per bere il vino che viene offerto, nessuno trascura Sa Filonzana per tema che questa si irriti e assottigli il filo facendo capire che presto si spezzerà. Sa Filonzana è l’antica Parca che tesse il filo della vita. Questa figura lugubre non poteva mancare nel carnevale sardo, perché l’ultimo giorno era lei la vera protagonista. Quando cessava di filare e spezzava il filo era il momento in cui la vittima doveva morire.

Le maschere di Olzai, altro paese della Sardegna centrale, sono attualmente di due varietà: Maimones e Murronarzos oltre a sos Intintos. Coloro che si mascheravano erano sempre uomini. Sos Murronarzos si tingevano il volto col sughero bruciato, come facevano sos Maimones di Oniferi, ma, contrariamente a questi, applicavano un autentico muso di porco o di cinghiale, che oggi alcuni sostituiscono con una maschera facciale. Un tipo di maschera dai tratti suini è presente anche nel carnevale di Ottana.

Sant’Agostino, vissuto tra il IV e il V secolo d.C., nei suoi sermoni rimproverava coloro che, alle calende di gennaio (periodo in cui iniziava il carnevale), si mascheravano in questa maniera. Nel sermone 129, a lui attribuito, si legge: “Alcuni indossano pelli di bestie, altri si adattano sul capo teste di animali, felici ed esultanti se riescono a trasformarsi in forme bestiali, in modo tale da non sembrare più uomini…” e nel sermone 130 A aggiunge: “Si vestono con abito bestiale, simili alla capra e al cervo, per farsi ad immagine del dio e, resisi somiglianti, viene fatto un diabolico sacrificio…”.

Le maschere del centro Sardegna, nonostante le varianti che si presentano tra un paese e l’altro, ripetono ancora i brandelli del rito cui accenna Sant’Agostino e vestono di pelli perché la pelle era considerata il mezzo necessario per richiamare la pioggia. La maschera lignea che spesso portano sul volto era considerata un mezzo per mettere in comunicazione l’umano col divino ed era fatta di pero selvatico perché tale albero era sacro a Dioniso e a Persefone, divinità lunare, anch’essa legata al ciclo vegetativo. L’uomo che funge da vittima, carico di pelli e campanacci, detto a seconda dei paesi Mamuthone, Boe, Urthu o Urtzu, è sempre muto, dovendo rappresentare la divinità, mentre i suoi guardiani, essendo esseri umani, sono spesso parlanti. Tutte le vittime di questi carnevali erano maschili ma, volendo rappresentare l’androginia del dio, queste maschere portavano in testa, nonostante le corna, il fazzoletto femminile del costume locale. Un particolare, questo, che non veniva trascurato da nessuna maschera, così come non venivano trascurati i sonagli che le vittime portavano numerosi sul petto e sulle spalle agitandoli con movimenti ritmici perché il loro rumore allontanasse gli spiriti del male.

Secondo alcune testimonianze, fino alla fine del 1700 molte maschere, al posto dei campanacci, portavano legati sulle spalle ossi di animali che producevano un suono roco quando venivano agitati; questi servivano per rappresentare la morte alla quale sarebbe seguita la rinascita con la vita che perennemente si rinnova. La testimonianza principale ci viene da una poesia scritta nel 1772 dal poeta sardo Bonaventura Licheri, un gesuita che accompagnava il padre Giovanni Battista Vassallo, gesuita pure lui, durante l’evangelizzazione che veniva fatta nella Sardegna centrale. Nelle sue prediche il Vassallo proibiva severamente questi mascheramenti minacciando di scomunica coloro che, pur essendo battezzati, si comportavano come i pagani. Dalle parole del Vassallo si arguisce che, ancora nel XVIII secolo, si sapeva che tali travestimenti erano legati al sacro, benché chi li praticava non ne comprendesse tutta la portata. D’altronde non era una cosa nuova.

Già Tertulliano, un apologista del II secolo d.C., si lamentava nel suo trattato De idolatria del fatto che tante persone, pur essendosi convertite al cristianesimo, quando giungevano le calende di gennaio si mascheravano in forme animalesche, ben sapendo che tale travestimento proveniva dalla religione pagana. Questo comportamento dovette proseguire nel tempo se anche Sant’Agostino rimprovera i neoconvertiti per lo stesso motivo e dopo di lui vari altri padri della chiesa. Le prediche del Vassallo dovettero incidere fortemente nell’animo del popolo e, con tutta probabilità, quello fu il periodo in cui le maschere della Sardegna cominciarono a subire delle modifiche, eliminando il cumulo di ossi che portavano sulle spalle o abbandonando la figura della vittima che si adattava sul capo la testa di un capro o di un cervo. In alcune località, forse le più isolate, continuarono però questi mascheramenti fino a tempi abbastanza recenti, tanto da poter essere recuperati dalla memoria collettiva del popolo sotto forma di folklore.

 
Dolores Turchi

Comunità Montana del Nuorese – Gennaio 2005