Mario Cossu

Le Maschere dei Boes e Merdules

Le Maschere Barbaricine

Il seguente articolo, scritto nel 1951 da Raffaello Marchi, attraverso la descrizione delle maschere di Mamoiada, mamuthones e issohadores, mostra come la mascherata barbaricina abbia origini molto antiche e probabilmente risalenti al culto del bove. Le supposizioni fatte dal Marchi mostrano come possa essersi evoluta la figura del mamutone, lasciando intravvedere una possibile origine comune con i Boes e Merdules di Ottana, la cui rappresentazione, inscindibilmente legata alla figura bovina, appare meno misteriosa ma ne rispecchia forse il significato più autentico. [N.d.R.]

 

Il mamutone porta ancora un pesante mazzo di campanacci da bue legato sul dorso e una collana di sonagli più piccoli e leggeri, bronzei, appesi al collo, e ha sul volto la bisèra, la maschera nera [1]. I mamutones vanno accompagnati dagli issocadòres, dai portatori di soca, di una lunga fune, cioè, che ora è fatta di giunco per il solo uso carnevalesco, ma che anticamente era di cuoio pesante, se doveva servire per prendere al laccio gli uomini, così come serve ancora per prendere le bestie grosse. Il vestito degli issocatores, che non portano né maschere né sonagli è del tutto diverso da quello dei mamutones e viene indicato come una beste ‘e turcu: berretta con nastri, larghi pantaloni e camicia di tela, bianchissimi con sfumature azzurrine, il corpetto rosso del vestiario maschile o quello variamente colorato e ornato del vestiario femminile, ma indossato a rovescio come la mastruca dei mamutones, e infine uno scialle multicolore attorcigliato alla cintura.Questo costume che ora viene improvvisato e rabberciato alla buona, in altri tempi – prima della guerra mondiale, dicono i vecchi – era bello e ornatissimo; e anche il mamutone, che è diventato piuttosto cencioso senza che i cenci facciano parte della rappresentazione, era un tempo pulito e di nobile aspetto, nonostante il peso dei sonagli e la maschera luttuosa [2]. I mamutones e gl’issocadòres «escono», come dicono nel paese, il 17 gennaio per la prima volta «sa die ‘e Sant’Antoni», di quello stesso Santo per cui grandi fuochi votivi si accendono in tutta la Barbagia, ma in altri tempi quest’uscita avveniva già verso l’Epifania o addirittura a Natale.

Fra le tante supposizioni che si possono fare intorno all’origine e al significato dei mamutones scelgo quella che mi sembra la meno fantastica: la processione è la cerimonia commemorativa di un avvenimento storico locale, è un rito austero, vorrei aggiungere, se questa espressione non fosse diventata grottesca con l’uso che se ne fece nel famoso ventennio della vita italiana.Non è difficile percorrendo la triste storia dei sardi, trovare un avvenimento che possa aver dato origine alla cerimonia dei mamutones. Dal Medioevo fino alle soglie del secolo scorso i Sardi furono moltissime volte assaliti e tormentati da quei pirati e razziatori mussulmani che essi chiamavano e chiamano ancora «sos Moros». Ma nell’epoca bizantina, e specialmente in quella immediatamente successiva del governo autonomista dei giudicati, furono i Sardi a vantare qualche vittoria sui saraceni, tanto che a un certo momento, nei primi decenni del IX secolo, riuscirono a catturarne un gran numero, compresi quattro fra i capi o ufficiali più grossi; anzi da queste vittorie e da questa cattura ebbe origine la bandiera sarda nella quale si vedono effigiati, appunto quattro mori con gli occhi bendati: così almeno affermano alcuni storici del secolo scorso e altri ancora più antichi.

Si può ancora immaginare che i prigionieri siano stati spogliati e rivestiti della mastruca sarda, con l’aggiunta del turbante legato intorno al capo della maschera nera con il mento appuntito dalla barbetta, e anche dei campanacci per indicare che gli assoggettatori erano finalmente assoggettati e perfino «imbovati»; e i sardi, poi, abbigliati con i panni dei vinti (cioè con la «veste di turco» o di moro) in segno di orgoglio e di ammonimento, e conservando la «soca» come emblema guerresco, continuarono a celebrare la loro vittoria per moltissimi anni, fino a perderne il ricordo nell’oblio dei secoli: ma la cerimonia rimase, sia pure relegata fra le mascherate carnevalesche.

Ma tutto fa pensare che la mascherata dei mamutones sia assai più antica del governo autonomista sardo, del dominio vandalico e di quello bizantino in Sardegna, anche se in questi come in altri periodi può aver subìto una serie di adattamenti e di aggiornamenti, con sovrapposizione di elementi nuovi e contemporanei. Tornando dunque indietro dal Medioevo e scartando le innovazioni, possiamo riconoscere nella mascherata barbaricina un piccolo dramma ricavato dalla vita vissuta, un mimo profano e realistico, un tentativo e un esordio di ciò che qualche millennio dopo fu chiamato teatro di massa.Se poi indietreggiamo ancora nel tempo, dopo aver sfrondato nuovamente la cerimonia di qualche elemento meno antico e dopo averne messo qualche altro in rilievo, come la danza che certo appartiene alla struttura più arcaica, ci può capitare l’avventura di assistere, in pieno secolo ventesimo, sia a un rito totemico di assoggettamento del bue sia, in un periodo meno remoto, a una di quelle processioni rituali che i sardi della civiltà nuragica dovevano fare molto spesso in onore dei loro piccoli numi agricoli o pastorali. In un caso e nell’altro possiamo immaginare, al posto dei mamutones, una torma di buoi veri tutti rimbelliti, inghirlandati e come vestiti a festa che vanno in processione guidati da mandriani issocatores, e col popolo intorno che magnifica e vezzeggia come sposa novella il suo animale più utile, più prezioso e familiare. Oppure, facendo una piccola variazione, possiamo vedere di nuovo nei mamutones degli uomini «imbovati», ma questa volta dei contadini o dei pastori che si vogliono immedesimare nel bue in segno di maggiore e più mistica venerazione, e si coprono il volto con la maschera bovina, con una di quelle innocenti e ornatissime «teste di bue» che ancora si possono vedere nell’antica Barbagia, cui presento, infatti, un magnifico esemplare. Da tutto ciò possiamo ricavare l’immagine serena e un pò idillica di un clan o di una tribù patriarcale in cui c’è un’unica classe di uomini ugualmente liberi, laboriosi e solerti di fronte alla venerata torma degli animali domestici; una società libera dal terrore religioso, probabilmente che non usa neanche sacrifizi cruenti [3], ma che limita le sue pratiche rituali a qualche cerimonia propiziatoria e scongiurativa, a modeste magie terapeutiche, forse a piccoli misteri orgiastici e sopratutto alle offerte di succose primizie agricole, e di quei pani ornati, di quelle focacce dolci, di quegli animaletti modellati nel formaggio che i pastori e le donne, negli ovili e nelle case, fanno ancora oggi per dedicarli a qualche santo protettore o anche, ormai, senza nessun intento dedicatorio.

Il sardo non ha creato idoli tenebrosi e terrificanti perché la sua fantasia non ha mai oltrepassato i limiti della concretezza e della chiarezza; ma questa stessa povertà d’immaginazione che gli ha impedito di rappresentarsi un sopramondo infernale o celeste, gli ha dato la possibilità di vivere con intensità e pienezza di affetti in una realtà che mostra due volti, come una statua bifronte: da una parte la natura serena e produttiva, e la «bella d’erbe famiglia e d’animali» che egli esalta e magnifica in tutte le sue espressioni artistiche, e ricorda e rimpiange perfino nei suoi canti funebri; dall’altra parte la vita accidentata e problematica, che richiede una tensione continua della volontà e uno spirito rude di vigilanza e di lotta per resistere all’assalto dei nemici, degli invasori, dei razziatori. Da una parte, ancora, ci può essere l’immagine idillica e floreale di un bue o torello inghirlandato per la sua festa, come espressione di poesia dei contadini che l’hanno foggiata, dall’altra la maschera umana nella quale gli stessi artefici contadini hanno voluto imprimere realisticamente, con l’accentuata contrazione delle sopracciglia, il senso di una fatica affannosa, di un dolore implacabile, di un terrore non degli dei, ma degli uomini [4]. Sono questi, appunto, i due aspetti essenziali e preminenti dell’umanità sarda, che si rilevano dalle testimonianze del passato e dallo studio del presente che ne contiene tutte le impronte e non è meno eloquente.

Raffaello Marchi
Tratto da “IL PONTE” anno VII – N. 9-10 – 1951
 

 
[1] Per bisera l’etmologia da visus o da visum mi sembra semplicistica. Questa parola, che come nome di maschera è usato solo a Mamoiada, riappare in una efficace espressione del linguaggio popolare comune a diversi paesi: «ti àna fattu a bisera, ti ses fattu a bisera», ed ha una ricca variazione di significato: ti hanno ridotto o ti sei ridotto in pessimo stato, fisicamente o moralmente, sei malconcio, sporco, umiliato, canzonato, messo alla berlina o anche ferito, sfregiato. La bisera è di legno di fico o di sughero in altri tempi ben lucidato e levigato; è una maschera tragica non mostruosa. Non ci sono, e si può affermare che non ci siano mai stati in Sardegna, maschere spaventevoli di esorcismo, di sepoltura, di travestimento, di battaglia o di culto.
[2] Nei paesi della Barbagia si possono rintracciare altri tipi di travestimento che richiamano solo apparentemente i mamutones. A Nuoro ci sono i boves, distinto da boes, i buoi, e la parola stessa indica il carattere e forse anche il significato e l’origine della maschera; in altri paesi si trovano i boetones, che sono pure figure bovine, i carataos, mascherati bovini, i battileddos, stracciati bovini, i merdules, che può significare tanto buoi sporchi quanto uomini sporcaccioni, i bumbones, ubriaconi, «imbovati» anche essi. Tutti questi travestiti portano corna di bue legate sulla fronte o maschere cornute, collane di campanacci e mastruche; e si son visti spesso due giovanotti aggiogati come buoi e col contadino armato di pungolo appresso. Il loro aspetto è tutt’altro che giocondo, anche perché le loro vesti sono in genere vedovili: hanno indossato il costume nero delle madri o delle nonne e così abbigliati vanno urlando e muggendo e cantando attìtidos, nenie funebri, intorno al maimone bacchico, che sembra nello stesso tempo un morto che si piange, un idolo che si va a sotterrare, un nume o un dèmone che viene esaltato e glorificato. Per indicare tutto ciò c’è nel sardo di Nuoro il verbo si bovare «imbovarsi» che in origine significava dunque tutte queste cose insieme: identificarsi nell’animale più utile e perciò venerato, immedesimarsi nella madre amata che piange i morti e contemporaneamente immergersi nello stato di euforia e di delirio che lo stesso bove o bumbone si creava. Questa mascherata, nella quale è facile ravvisare fra l’altro la sopravvivenza di un rito orgiastico, è bellissima in se stessa, quando conserva tutto il suo carattere di cosa arcaica e primiziale, ciò che avviene soltanto nei più isolati paesi della Barbagia, dove non è ancora penetrata la triste provincialità di tutti quei sardi istruiti che vorrebbero modernizzare, s’intende a modo loro, il costume popolare.
[3] Che i sardi primitivi usassero fare sacrifizi cruenti non pare cosa accertata e neanche accertabile con le sole testimonianze che se ne hanno e col solo esame dei monumenti protosardi; tanto meno possiamo affermare che essi sacrificassero vittime umane, come s’immaginò qualche scrittore dell’800 dopo aver visto alcuni bronzetti nuragici più fantastici che mostruosi, nei quali aveva identificato simulacri del Moloc fenicio.
[4] Le due «maschere dei mamutones» che presento (e anche quella bovina) sono antichissime, e furono riprodotte su modelli ancora più antichi; quasi tutte quelle che ho potuto vedere hanno le sopracciglia contratte come per dolorosa meditazione, ma non tutte hanno il mento a cuneo che si ritrova pure in maschere del periodo ellenistico. Non mi pare che ci siano analogie di nessun genere, invece, fra le maschere di legno barbaricine e quelle Puniche di terracotta che furono scoperte nelle rovine della città di Tharros.